di Attilio Bolzoni su La Repubblica del 13/10/2005
Lo aspettavano dai tempi di Peppino Garibaldi questo Ponte dei
desideri. Profumava di soldi anche quando era solo un'idea, un
miraggio. Quasi quasi non ci credevano più neanche loro che un giorno
quei tre chilometri e trecento metri di cemento sospeso sul mare
potessero davvero unire la Sicilia all'Italia, un'opera grandiosa, un
affare colossale. Sono rimasti appostati pazientemente sulle due sponde
per decenni. E adesso sono lì, in agguato per chiedere e per prendere.
Le mafie vogliono il loro 25 per cento.
L'ultima indagine
giudiziaria ha monitorato 3827 imprese nell'isola e 2502 in Calabria,
ha esaminato 7 mila particelle catastali, ha individuato 46 personaggi
appartenenti a importanti gruppi d'affari e 23 amministratori di
società con precedenti per associazione a delinquere, ha visionato
tutte le mappe del Piano regolatore generale di Messina e di Reggio. E
a conclusione, l'inchiesta è stata inviata alla Procura nazionale
antimafia, una cinquantina di pagine con un'analisi finale: «Alcune
imprese, unitamente ad altre di caratura internazionale, hanno
costituto associazioni.... altre hanno allargato il loro campo d'azione
costituendo società con titolari fittizi con mero ruolo di
prestanome...».
C'è una Banca Dati che ha dentro tutte le schede
dei siciliani e dei calabresi che stanno salendo sul Ponte. Ci sono i
capi delle «famiglie» più influenti ma ci sono anche rampolli della
borghesia messinese e reggina, ingegneri, commercialisti, avvocati,
imprenditori edili e imprenditori turistici, tutti in corsa per
ricavare il massimo profitto da quel nastro che porterà da Scilla a
Cariddi senza più imbarcarsi sul ferry boat. I movimenti criminali sono
cominciati già da qualche anno. Il primo segnale è arrivato da Catania,
da un'alleanza strategica tra un clan vicino ai Santapaola e quello
calabrese dei Morabito di Africo Nuovo. Poi si sono mossi gli
agrigentini. In massa. Decine di imprese sono «emigrate» da una parte
all'altra della Sicilia, si sono insediate sullo Stretto dove hanno
stipulato patti con società locali, per lo più costruttori. E poi,
silenziosamente si sono avvicinati a Messina i palermitani. Con i loro
manager e i loro «ministri» dei Lavori Pubblici, insospettabili uomini
di paglia al servizio di Bernardo Provenzano. Dall'altra parte, a
Reggio, le «famiglie» avevano fatto pace per tempo. E ogni ‘ndrina
adesso metterà sopra e sotto il Ponte tutto quello che ha: le cave, il
calcestruzzo, le macchine per il movimento terra, i camion per i
portare via quelle tonnellate e tonnellate di terra e di pietra dove
sorgeranno i piloni. Sono i soliti ignoti: i Mammoliti, i Pesce, i
Piromalli, i Mazzaferro.
Ma l'ultima indagine sugli affari del
Ponte ha scoperto anche che qualcuno sta brigando sui terreni alla
punta estrema della Sicilia e della Calabria. «Sono aree al centro di
imponenti manovre speculative», scrivono alla procura di Messina e di
Reggio i poliziotti della Divisione anticrimine. In Sicilia si
mischiano nomi e interessi intorno agli espropri d'oro nella zona del
lago di Ganzirri. Ancora dal dossier di polizia: «Esistono elementi per
ipotizzare tentativi di infltrazione da parte di associazioni mafiose
in alcune società e in riferimento alle procedure espropriative, negli
assetti societari vi è una compresenza di soggetti con legami mafiosi e
di soggetti appartenenti all'ambiente universitario messinese e
all'alta imprenditoria».
Appalti, sub appalti, espropri,
trasporti. E anche pedaggi. Di gestire questi ultimi attraverso una
propria società ci aveva pensato - almeno così emerge da un'altra
inchiesta giudiziaria dei procuratori di Palermo - quel Giovanni Lapis
presunto socio occulto di Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito,
l'ex sindaco mafioso di Palermo. E a buttarsi a capofitto nell'«affare
del secolo» aveva tentato pure un ingegnere di origine calabrese che si
presentava a tutti come «il commendatore». Si chiama Giuseppe Zappia. E
al telefono parlava sempre del Ponte. Lo intercettavano mentre diceva:
«Il mio capo è potente come lo era Saddam Hussein a Bagdad, mi occupo
io di tutto e poi farò contenti i mafiosi in Sicilia e anche la
‘ndrangheta in Calabria».
Il «commendatore» Giuseppe Zappia
aveva trovato 5 miliardi di euro per riciclarli tra Messina e Reggio
Calabria. Aveva amici che contano in America, narcotrafficanti famosi,
gente che veniva da lontano. Soprattutto da Siculiana, un paese che una
volta era la Wall Street della droga. Poi quei galantuomini erano
diventati rispettabilissimi capitani d'industria a Caracas e a
Montreal. Il commendatore aveva buone entrature anche nei ministeri di
Roma. Era sicuro di farcela. Purtroppo per lui un'indagine ha mandato
in aria i suoi piani e in galera i suoi soci. Si racconta che in
Sicilia e in Calabria non si siano strappati i capelli per le
disavventure giudiziarie del commendatore e dei suo compari
d'oltreoceano. Faranno tutto da soli i boss delle due sponde. E
probabilmente ci guadagneranno di più.
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