Il
ponte sullo Stretto
resisterebbe a un movimento sismico di quella forza? Nella migliore
delle ipotesi, nessuno lo sa. Ed era stata proprio quest’incertezza a
dissuadere i giapponesi. Purtroppo non ha dissuaso il Pus (Partito
unico siciliano).
Negli ultimi dieci ha puntato forte sul ponte (sono in ballo almeno 10
miliardi di euro) godendo pure di fortune impreviste. Persino il
governo Prodi, che ne aveva escluso la costruzione, ha in fondo tenuto
in vita il progetto. Il ministro Di Pietro, infatti, anziché liquidare
la società ‘Stretto di Messina’, la mise in naftalina. Però è stato
questo suo atto a consentire il rilancio dell’opera appena Berlusconi è
tornato al governo la scorsa primavera.
Il premier sosteneva d’interpretare la volontà dei siciliani. Tesi
assai azzardosa: in realtà interpretava la volontà dei suoi amici e ignorava di ripercorrere le strade di tanti che hanno spesso
mascherato i propri bisogni con i presunti desideri del popolo isolano.
Il primo a comportarsi così fu nel 1945 Andrea Finocchiaro Aprile,
leader del separatismo siciliano, benché figlio di un toscano e
iscritto a una loggia massonica anti regionalista: garantì ad americani
e inglesi, al tempo padroni dell’Italia, che il
novanta per cento degli isolani era prontissimo ad impugnare il fucile
in caso di mancata indipendenza. Al momento del suo massimo fulgore
l’esercito di Finocchiaro Aprile
arrivò a contare 56 volontari. Anche il ponte è in realtà circondato
dalla stessa indifferenza. Lo vogliono i pochi che ne godranno gli ampi
benefici economici, sono disinteressati o addirittura contrari tutti
gli altri. Messina, la città più coinvolta, si oppone
in maniera ormai netta, malgrado l’enorme influenza in città dei
fratelli muratori, tra i massimi referenti del progetto.
Ha poi provveduto la crisi economica a raffreddare gli entusiasmi e soprattutto i finanziamenti del Cipe per avviare una costruzione dai tempi smodatamente lunghi. Secondo i suoi agiografi potrebbe esser pronta nel 2017 quando in Cina hanno impiegato quattro anni per edificare nella baia di Hangzhou un ponte di 36 chilometri, la stessa distanza che intercorre fra Padova e Venezia. La società capofila del consorzio vincitore è sempre l’Impregilo, della quale le cronache si sono molto occupate per i problemi sorti in Campania sul fronte degli inceneritori. Proprio sugli ottimi rapporti con l’Impregilo puntavano i dirigenti della Calcestruzzi per inserirsi nell’affare. Finché gli inquirenti non l’hanno fermata, la Calcestruzzi ha imperato in Sicilia quasi in regime monopolio – l’80 per cento del mercato era suo - grazie alla protezione delle cosche mafiose. I magistrati della procura di Caltanissetta sostengono che per procurarsi i fondi neri da versare ai boss il suo prodotto avesse fino al 30 per cento in meno di conglomerato cementizio. Da mesi i periti esaminano viadotti, ponti, palazzi, strade, dighe. Esiste il diffuso timore che molti lavori andranno rifatti per non mettere a rischio l’incolumità pubblica. Se la Calcestruzzi avesse usato gli stessi metodi nei suoi interventi sul ponte, avevano anche aperto un ufficio a Messina in vista dei futuri affidamenti, quali sarebbero state le conseguenze per i milioni di clienti con il 30 per cento in meno di calcestruzzo nei pilastri della campata? Operazioni recenti condotte dalla Dia e dall’Fbi hanno raccontato che alcune grandi ‘famiglie’ mafiose americane - i Rizzuto, i Cuntrera, i Caruana, i Bonanno – già nel 2005 avevano pronti 5 miliardi di dollari da investire nel ponte. Irreprensibili ingegneri e finanzieri sono finiti in galera, ma i 5 miliardi sono sempre pronti come sono pronte le ‘ndrine della piana di Gioia Tauro, che furono convinte dagli emissari d’oltre Oceano a chiudere la faida, perdurante dal ’91, per concentrarsi sul “miglior affare di tutti i tempi”.
di Alfio Caruso; Fonte:giornalettismo.com
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