di Gian Antonio Stella su Corriere della Sera del 05/10/2005
«Hanno abbandonato Messina a se stessa. Al degrado. Alla mafia. Due
anni e mezzo di abbandono. Non si era mai visto credo, in Italia, un
commissariamento così lungo per una città così grande. Mai. Pieno
abbandono. E i risultati sono lì, sotto gli occhi di tutti». Monsignor
Giovanni Marra fa il prete da oltre cinquant’anni, il vescovo da venti,
l’arcivescovo di Messina da otto, dopo esser stato ordinario militare
per l’Italia. Non è un polentone veneto o un boujanen piemontese
incapace di capire le sfumature del Mezzogiorno. E’ un uomo del Sud.
Nato al di là dello Stretto a Oppido Mamertina, un paese
dell’Aspromonte tristemente celebre per una faida sanguinosa che ha
visto uccidere anche dei bambini. Quando parla di mafia sa di cosa
parla. E il suo atto d’accusa è così duro da ricordare l’omelia del
cardinale Salvatore Pappalardo ai funerali di Carlo Alberto Dalla
Chiesa, quando disse, citando Sallustio, «Mentre a Roma si discute,
Sagunto viene espugnata!».
Siamo ancora inchiodati lì?
«No.
Ci sono stati dei passi avanti. Processi importanti come quelli
promossi da Giancarlo Caselli e Pietro Grasso, grandi appelli di uomini
di cultura... Non siamo più all’anno zero. C’è più coscienza. Più
preoccupazione. Più impegno. Sui passaggi di mano dei terreni che
dovrebbero essere interessati dai lavori per il Ponte sono stati fatti
ad esempio dei controlli capillari. Nella scuole si parla della mafia e
c’è una maggiore sensibilità. Ma resta da fare ancora molto. Perché
nella società resistono sacche di cultura mafiosa. Penso
all’ammirazione verso il prepotente. Al giustificazionismo nei
confronti di chi viola la legge...».
Un tempo si diceva che a Messina non c’era la mafia.
«No.
La mafia c’è. E’ forte e potente. C’è come c’è la ’ndrangheta. Che si
sommano agli altri problemi. Il sottosviluppo. La disoccupazione. La
piccola criminalità. Il clientelismo. Non ci volevano, questi due anni
di abbandono».
Ce l’ha con la destra e col sindaco Buzzanca che
si era intestardito a non dare le dimissioni nonostante le sentenze che
lo dichiaravano decaduto?
«Sui diritti personali ognuno ha fatto
quello che credeva giusto. Non discuto. Ma occorreva tenere conto del
bene comune. Che veniva prima. Ho aspettato a lungo. Poi, visto che non
c’erano prospettive, sono stato costretto a intervenire anch’io».
E ha chiesto direttamente al sindaco di dimettersi.
«Per
la città. Che non merita questo degrado della politica. E mi riferisco
a tutti. perché se tutte le forze fossero state concordi...»
... sinistra compresa...
«... si sarebbe potuta trovare una soluzione prima».
Pensa che la classe politica non sia all’altezza?
«Non v’è dubbio che la Sicilia potrebbe esprimere una classe dirigente di gran lunga superiore»".
Solo che...
«I
partiti danno spazio e portano su uomini piccoli. E quelli più validi
restano fuori. Eppure ci sarebbero, le figure... Ci sarebbero le
intelligenze... In una realtà come questa i partiti dovrebbero fare un
passo indietro. Per lasciare spazio a un governo di salute pubblica. Ma
non cedono, non cedono».
E perché?
«E’ un discorso lungo.
C’entrano la legalità, il clientelismo, l’usura, la mafia... Non è
possibile che dopo un secolo, nonostante i soldi stanziati dalla
Regione fin dal 1991, ci siano ancora le baracche del terremoto del
1908! E’ una tale sofferenza...».
Per questo è andato a fare la via crucis nel quartiere di Mare Grosso che pare una favela del terzo mondo?
«Sì. Lì è il simbolo, con altre aree, del calvario di questa città. Che sta male. Non vede prospettive...».
Lei sì?
«Sono un prete: la via crucis a Mare Grosso è nella prospettiva di una resurrezione».
Ci crede davvero?
«Sì.
Questa è una città con tanta povertà e tanta disperazione. Ma anche con
tante energie pulite. Tante persone positive. Tante risorse da cui
potrebbe rinascere una città nuova. Il mare, il turismo, la pesca,
l’artigianato, il ponte...».
Lei è favorevole?
«Io sì. Il
ponte può essere una grande risorsa. Portare lavoro per anni. Rimettere
in movimento tutto. Spingere alla rinascita. Purché...»
Purché?
«Purché
non sia un ponte nel deserto. Deciso e progettato e costruito come un
corpo estraneo alla città. Senza risanare prima Mare Grosso, senza
buttar giù le baracche, senza restituire una speranza a chi vive in
condizioni penose. Allora potrebbe essere perfino un danno».
Si sente, la mafia?
«Si
sente, si sente. Al di là dell’organizzazione vera e propria, vedo
purtroppo una mentalità mafiosa. C’è sempre qualcosa di intimidatorio,
nei rapporti. Perfino nell’ambito ecclesiastico. Se ti chiedono
qualcosa è come se aggiungessero: guarda che se non ce la dai...».
Ma...
«Le
faccio un esempio. Una volta la gente di una parrocchia, che si era
affezionata a un vice-parroco che avevo mandato lì provvisoriamente,
fece una raccolta per tenersi quel prete. Millecinquecento firme.
Un’iniziativa lodevole. Ma la accompagnarono con un avvertimento: "Se
non ce la dà vinta, le consigliamo di non farsi vedere...". Convocai i
primi firmatari, sventolai la petizione e dissi: "Io questa la porto
adesso alla Procura della Repubblica". Mi chiesero scusa. Lasciammo
perdere. In realtà la città è piena di persone perbene e di buona
volontà. Piena».
Peccato che i partiti...
«Un desiderio di
legalità io lo vedo crescere. Solo che c’è ancora troppa "attenzione" a
certi gruppi di potere che possono portare voti. C’è gente che viene da
dominii antichi che continuano a funzionare basandosi sui vecchi
sistemi. Il clientelismo, la raccomandazione...».
Vecchi vizi. O sono anche peccati?
«Per
un cristiano sì, sono peccati. Peccati gravi. Il clientelismo illude le
persone. E riduce tutto a mercato. Non è accettabile che negli
ospedali, per fare un esempio, il medico "amico" passi davanti al
medico bravo. Non è accettabile che il raccomandato faccia eliminare il
più capace. Certo che sono peccati».
Chi è che non ha fatto il suo dovere, per fermare il degrado: lo Stato?
«Qualche
pezzo di Stato c’è. La polizia, i carabinieri, la finanza. In
condizioni difficilissime, ma il loro dovere lo fanno. Il governo.
Quello è mancato. Cittadino, regionale, statale».
Chi altri?
«Tanti. Io per primo: avrei dovuto parlare con voce più forte».
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