Salvatore
Riina, anche detto Totò u curtu, nasce a Corleone il 16
novembre 1930. A diciannove anni uccise un coetaneo in una rissa. Dopo aver
scontato sei anni, ritornò al paese, diventando il luogotenente della banda di Liggio,
impegnata ad eliminare il predominio di Michele Navarra sulla cosca della zona.
Fu arrestato nel dicembre del 1963 e, dopo alcuni anni di reclusione trascorsi
all'Ucciardone di Palermo, fu assolto prima a Catanzaro,
nel processo dei 114 e poi nel giugno 1969,
al
processo di Bari. Inviato al soggiorno
obbligato, si diede alla latitanza e diresse le operazioni nella
strage di viale Lazio. Preso il posto di Liggio finito in carcere, condusse i
corleonesi negli anni Ottanta e Novanta alla realizzazione d'immensi profitti,
prima con il contrabbando e poi con la droga e gli appalti pubblici. Oltre
a conquistare il predominio all'interno di Cosa Nostra, sterminando il superboss di Cosa Nostra Stefano Bontade e i suoi
fedelissimi,
Riina lanciò una pesante sfida allo Stato, eliminando
numerosi rappresentanti delle istituzioni e della magistratura e valenti uomini
delle forze dell'ordine. Trascorse ventitre anni di latitanza, in assoluta
libertà e per lo più a Palermo, nonostante le tracce lasciate dal matrimonio
nell'aprile del 1974 con Antonietta Bagarella e dai battesimi dei suoi quattro
figli. Fu arrestato dagli uomini del ROS dei
Carabinieri il 15 gennaio 1993. Già condannato con sentenza passata
in giudicato dalla Corte di cassazione a due ergastoli, a
lui vengono anche attribuiti tutti gli omicidi eccellenti decisi da Cosa Nostra
negli ultimi decenni.
Attualmente è imputato in tutti i più importanti processi per mafia in corso
nel nostro paese, a partire da quelli per le stragi in cui persero la vita i
magistrati Falcone
e Borsellino. Fino al luglio del 1997 Riina è
stato rinchiuso nel supercarcere dell'Asinara, in Sardegna: in seguito è stato
trasferito al carcere di Marino del Tronto ad Ascoli. Lunedì
12 marzo 2001, un brutto pomeriggio per l'antimafia: hanno tolto l'«isolamento» a Totò
Riina e le scorte fisse ai magistrati più esposti. Nel carcere «duro» di Ascoli Piceno
il capo dei capi di Cosa
Nostra è tornato «a vita comune» perché, dopo un tira e molla con i giudici
di Palermo, la Cassazione ha imposto la scelta indicando «i principi di
diritto» alla corte di Appello.