Negli ultimi dieci anni sono
arrivate ad occupare una superficie pari a quella della Nuova Zelanda,
crescendo del 30%. Sono le zone morte degli
oceani, quelle dove è impossibile la vita. Sono state esaminate 405 aree del pianeta in cui gli
oceani hanno carenze molto gravi di ossigeno, trovando che la loro
superficie è ormai di 250 mila chilometri quadrati e aumenta con grande
velocità. Secondo Robert Diaz, coordinatore di questo studio portato
avanti dal Virginia Institute of Marine Science , le zone morte sono il
principale indicatore dello stress degli oceani e non c’è nessun’altra
variabile che sia cresciuta così tanto in così poco tempo. Secondo lo studio queste aree sono in aumento anche come numero. Dalle
162 degli anni ‘80 si è passati alle 305 degli anni ‘90, fino ad
arrivare alle 405 di oggi. Il processo che causa la “morte” dell’oceano
dipende dalla forte presenza di nutrienti all’azoto e al fosforo,
normalmente dovuti a fertilizzanti, che provocano una crescita
incontrollata di alghe. Le alghe favoriscono la presenza di batteri
che, per decomporle, assorbono l’ossigeno dall’acqua circostante.
L’ipossia - spiega Diaz - viene presa in considerazione solo dopo che
ha effetto sui pesci sfruttati commercialmente, ma bisognerebbe
intervenire prima. La chiave per tamponare questo processo è quindi
quella di ridurre l’utilizzo dei fertilizzanti ed evitare che gran
parte di questi finiscano in mare. Diaz afferma che tale obiettivo è condiviso dagli agricoltori dati gli
elevati costi di acquisto dell’ azoto per le loro colture. Gli
scienziati e gli agricoltori - conclude Diaz - hanno quindi bisogno di
continuare a lavorare insieme per sviluppare metodi di coltivazione che
minimizzino il trasferimento di sostanze nutritive provenienti dalla
terra al mare.