
Passato nello schieramento vincente dei Corleonesi, nel corso degli stessi anni, strinse legami strategici con il mondo dei servizi segreti e della politica. In numerose situazioni, non esitò neppure a servirsi della cosiddetta "Banda della Magliana", una banda di delinquenti comuni con base operativa nella capitale che, una volta entrati in contatto con la mafia e i servizi, seppero diversificare le proprie attività criminali, finendo implicati in alcuni dei più importanti misteri italiani. Diversi collaboratori di giustizia parlarono di un coinvolgimento della "salamandra" nella vicenda Moro: durante una riunione della Commissione, infatti, egli avrebbe bloccato il tentativo di salvare lo statista democristiano che Stefano Bontate voleva compiere, dichiarando che a volerne la morte erano esponenti influenti della stessa Democrazia Cristiana. Calò fu anche tra gli organizzatori dell'attentato al rapido 904, il treno che esplose la notte del 23 dicembre 1984, provocando la morte di quindici passeggeri e il ferimento di altri duecento. Il convoglio saltò in aria nei pressi di San Benedetto Val di Sambro (BO), nella stessa galleria in cui dieci anni prima vi era stato l'attentato al treno "Italicus" (12 morti e 105 feriti).
Il cassiere di Cosa Nostra fu arrestato il 30 marzo 1985, in una villa a Poggio San Lorenzo, in provincia di Rieti: nel suo covo fu ritrovato un vero arsenale da guerra. Il 25 febbraio 1989 fu condannato all'ergastolo unitamente ad altri quattro imputati: nel corso delle indagini emersero i collegamenti tra lo stesso Calò ed ambienti della destra eversiva. La sentenza fu confermata in appello (15 marzo 1990). A questa condanna si aggiunsero poi altri due ergastoli, uno per l'omicidio del commissario Boris Giuliano e l'altro per l'eccidio di via Carini, in cui perse la vita il prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa. Nel settembre del 1993 chiese di essere interrogato dai magistrati che indagavano sugli attentati alle basiliche di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro a Roma, ma non fornì contributi rilevanti. Agli inizi del 1997, finirono in manette il costruttore palermitano Luigi Faldetta e Vincenzo e Giuseppe Bellino, uomini della famiglia di Porta Nuova: i tre furono accusati di essere i prestanome del boss palermitano per l'attività di riciclaggio. Il 26 settembre Calò fu condannato nuovamente all'ergastolo per la strage di Capaci. Alla fine dell'ottobre dello stesso anno, il "Corriere della Sera" pubblicò la clamorosa notizia della sua collaborazione con gli inquirenti: tuttavia la circostanza fu subito smentita.
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