Bernardo Provenzano è nato
il 31 gennaio 1933 a Corleone, da sempre "Binnu 'u tratturi" è uno dei
capi più misteriosi di Cosa Nostra, per la mancanza di notizie certe
sul suo conto. Non è un caso se, pur essendo attualmente in cima alla
lista dei grandi latitanti,
per molto tempo venne invece dato vittima della lupara
bianca. Insieme all'amico
, iniziò la carriera criminale nella banda di Luciano
Liggio,
che espresse nei suoi riguardi un famoso e lapidario commento: "
Provenzano spara come un dio, peccato che abbia il cervello di una
gallina ". Fu uno dei protagonisti indiscussi della guerra alle cosche
palermitane negli anni Ottanta. Al suo attivo tre ergastoli e altri
procedimenti in corso e una
latitanza di oltre trent'anni ultimamente interrota.
Per molto tempo è stato considerato solo un killer senza scrupoli, ma
nel corso degli anni gli investigatori hanno individuato in lui una
delle menti organizzatrici del riciclaggio del denaro sporco. Alcuni
collaboratori infatti hanno affermato che Provenzano è
il
boss che controlla gli appalti e tiene i contatti con il mondo
politico. Alla fine del 1992, la sua famiglia tornò a vivere a
Corleone. Ipotesi investigative hanno accreditato Provenzano ed Aglieri come i garanti della pax mafiosa tra le cosche palermitane e i corleonesi.
Cosa Nostra
è disciplinata da regole
rigide principalmente tramandate oralmente, che ne impostano
dall'organizzazione al funzionamento e si dice che nessuno troverà mai
elenchi di
appartenenza, né attestati, né ricevute di
pagamento di quote sociali.
Non meno minuziose sono le regole che disciplinano l'arruolamento degli uomini d'onore
ed i loro doveri di
comportamento. I requisiti richiesti per l'arruolamento sono:
salde doti di coraggio e di spietatezza; una situazione
familiare trasparente e, soprattutto, assoluta
mancanza di vincoli di parentela con "sbirri". La prova di coraggio
ovviamente non è richiesta per quei personaggi che
rappresentano, secondo un'efficace espressione di Salvatore Contorno,
la "faccia pulita" della mafia e cioè professionisti, pubblici
amministratori, imprenditori che non vengono impiegati generalmente in
azioni criminali ma prestano utilissima opera di fiancheggiamento e di
copertura in attività apparentemente
lecite. Il soggetto in possesso di questi requisiti viene cautamente
avvicinato per sondare la sua disponibilità a far parte di
un'associazione avente lo scopo di "proteggere i deboli ed eliminare le
soverchierie".
Ottenutone l'assenso, il neofita viene condotto in un luogo defilato
dove, alla presenza di almeno tre uomini della famiglia di cui andrà a
far parte, si svolge la
cerimonia del giuramento di fedeltà a Cosa Nostra.
Egli prende fra le mani un'immagine sacra, la imbratta con il sangue
sgorgato da un dito che gli viene punto, quindi le dà fuoco e la
palleggia fra le mani fino al totale spegnimento della stessa,
ripetendo la formula del giuramento che si conclude con la frase: "Le
mie carni debbono bruciare come questa santina se non manterrò fede al
giuramento".
Ogni "uomo d'onore" è
tenuto a rispettare la "consegna del silenzio":
non può svelare ad estranei la sua appartenenza alla mafia, né, tanto
meno, i segreti di Cosa Nostra; è, forse, questa la regola più ferrea
di Cosa Nostra, quella che ha permesso all'organizzazione di restare
impermeabile alle indagini giudiziarie e la cui violazione è punita
quasi sempre con la morte. All'interno dell'organizzazione, poi, la
loquacità non è apprezzata:
la circolazione delle notizie è ridotta al minimo indispensabile e l'
"uomo d'onore" deve astenersi dal fare troppe domande, perché ciò è
segno di disdicevole curiosità ed induce in sospetto l'interlocutore.
Quando gli "uomini d'onore" parlano tra loro, però, di fatti attinenti
a Cosa Nostra hanno l'obbligo assoluto di dire la verità
e, per tale motivo, è buona regola, quando si tratta con "uomini
d'onore" di diverse famiglie, farsi assistere da un terzo consociato
che possa confermare il contenuto della conversazione.
Questi concetti
sono di importanza fondamentale per valutare le dichiarazioni
rese da "uomini d'onore" e, cioè, da membri di Cosa Nostra e per
interpretarne atteggiamenti e discorsi. Se non si prende atto della
esistenza di questo vero e proprio "codice" che regola la circolazione
delle notizie all'interno di "Cosa Nostra" non si riuscirà mai a
comprendere come mai bastino pochissime parole e perfino un gesto,
perché uomini d'onore si intendano perfettamente tra di loro. Così, ad
esempio, se due uomini d'onore sono fermati dalla polizia a
bordo di un'autovettura nella quale viene rinvenuta un'arma, basterà un
impercettibile cenno d'intesa fra i due, perché uno di essi si accolli
la paternità dell'arma e le conseguenti responsabilità, salvando
l'altro. E così, se si apprende da un altro uomo d'onore che in una
determinata località Tizio è
"combinato" (e, cioè, fa parte di Cosa Nostra),
questo è più che sufficiente perché si abbia la certezza assoluta che,
in qualsiasi evenienza ed in qualsiasi momento di emergenza, ci si
potrà rivolgere a Tizio, il quale presterà tutta l'assistenza
necessaria.
Anche la "presentazione" di un uomo d'onore è puntualmente regolamentata dal
codice di Cosa Nostra allo scopo di evitare che nei contatti fra i
membri dell'organizzazione si possano inserire estranei. E' escluso,
infatti, che un "uomo d'onore" si possa presentare da solo, come tale,
ad un altro membro di Cosa Nostra,
poiché, in tal modo, nessuno dei due avrebbe la sicurezza di
parlare effettivamente con un "uomo d'onore". Occorre, invece,
l'intervento di un terzo membro dell'organizzazione che li conosca
entrambi come "uomini d'onore" e che li presenti tra loro in termini
che diano l'assoluta certezza ad entrambi dell'appartenenza a Cosa
Nostra dell'interlocutore. E, così, come ha spiegato Contorno, è
sufficiente che l'uno venga presentato all'altro, con la frase
"Chistu è a stissa cosa", perché si abbia la certezza che l'altro sia
appartenente a Cosa Nostra.
L'arresto
e la detenzione non solo non spezzano i vincoli con Cosa
Nostra ma, anzi, attivano quell'indiscussa solidarietà che lega gli
appartenenti alla mafia: infatti gli "uomini d'onore" in condizioni
finanziarie disagiate ed i loro familiari vengono aiutati e sostenuti,
durante la detenzione, dalla "famiglia" di appartenenza; e spesso non
si tratta di aiuto finanziario di poco conto, se si considera che, come
è notorio, "l'uomo d'onore rifiuta il vitto del Governo" e, cioè, il
cibo fornito dall'amministrazione carceraria, per quel senso di
distacco e di disprezzo generalizzato che la mafia nutre verso lo
Stato. Unica conseguenza della detenzione, qualora a patirla sia un
capo
famiglia, è che questi, per tutta la durata della carcerazione, viene
sostituito dal suo vice in tutte le decisioni, dato che, per
la sua situazione contingente, non può essere in possesso di tutti gli
elementi necessari per valutare adeguatamente una determinata
situazione e prendere, quindi, una decisione ponderata.
Il capo, comunque, continuando a mantenere i suoi collegamenti col
mondo esterno,
è sempre in grado di far sapere al suo vice il proprio punto di vista,
che però non è vincolante, e,
cessata la detenzione, ha il diritto di pretendere che il suo vice gli
renda conto delle decisioni adottate.
Durante la detenzione è buona norma, anche se non assoluta, che l'uomo d'onore raggiunto da gravi elementi di reità
non simuli la pazzia nel tentativo di sfuggire ad una condanna:
un siffatto atteggiamento è indicativo della incapacità di assumersi le
proprie responsabilità. In carcere gli "uomini d'onore" dovevano
accantonare ogni contrasto ed evitare atteggiamenti di aperta rivolta
nei confronti dell'autorità carceraria.
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