22/09/2008 - L’operazione “zaera” della Dda ha portato alla luce, oltre che gli affari di un potente clan criminale, una serie di gravi omissioni e di condizionamenti. Ferlisi: «Niente “disattenzioni” da parte dei vigili urbani». L’assessore Puglisi convoca per oggi un vertice
L’operazione “Zaera”, che ha portato all’arresto dei componenti del clan Vadalà, sembra aver squarciato la coltre di silenzio che ammanta le vicende non solo dell’ex “San Paolino”, ma di tutti i mercati cittadini. L’inchiesta del sostituto procuratore della Dda Giuseppe Verzera (e il conseguente provvedimento del Gip Giovanni De Marco), ha portato alla luce una serie di fenomeni criminali attraverso i quali una potente e pericolosa cosca mafiosa aveva conseguito il pieno controllo del territorio tra Camaro e il centro città. I fatti riguardano usura, estorsioni, ricettazione, detenzione di armi, truffe assicurative, tutti episodi di grande rilevanza ai fini dell’indagine, ma è evidente che lo sguardo degli inquirenti e dell’opinione pubblica non poteva non indirizzarsi soprattutto verso quanto accadeva all’interno del mercato Zaera, area di proprietà comunale diventata dominio di una “famiglia” e dei suoi accoliti.
Nell’ordinanza del Gip, si legge testualmente: «La gestione dell’area compete al Comune di Messina che provvede a rilasciare le licenze ai commercianti per l’occupazione dei relativi stalli. Lo stesso Comune dovrebbe provvedere anche al controllo e alla manutenzione. Tuttavia, come risulta dalle dichiarazioni dei funzionari del Comune e degli stessi commercianti, di fatto i dipendenti comunali non svolgono nè attività di vigilanza nè di occupano dell’apertura e della chiusura dei cancelli. Nessuno dei testi escussi ha spiegato le ragioni di tale “assenza” rinviando esclusivamente a una sorta di autogestione da parte dei commercianti; sta di fatto che quest’area del territorio è apparsa sottratta alla legalità».
Il gruppo familiare dei Vadalà, secondo quanto risulta dall’inchiesta, avrebbe operato – addirittura a partire dal 1996 – una sistematica forma di estorsione ai danni dei commercianti del mercato e il Comune si sarebbe, «per indolenza o per soggezione» totalmente disintessato di quell’area, non occupandosi della regolamentazione, della vigilanza e delle opere illegali realizzate all’interno.
Il quadro che emerge è inquietante e per fare chiarezza, almeno dal punto di vista amministrativo, l’assessore al Commercio Pinuccio Puglisi – in carica, va detto, solo da tre mesi – ha convocato per stamane un vertice con dirigenti, funzionari e responsabili degli organi di repressione, di vigilanza e di controllo.
A questo proposito, il comandante della polizia municipale Calogero Ferlisi ieri mattina, pur essendo giornata festiva, ha consegnato alla Procura una relazione dettagliata con tutti gli atti prodotti in questi ultimi anni dai vigili urbani. «Solo per il mercato Zaera – afferma Ferlisi – vi sono state 76 notizie di reato per occupazioni abusive, superfetazioni e altre illegalità; centinaia gli interventi nel quadro delle attività repressive da parte della polizia annonaria e per carenze igienico-sanitarie; migliaia le multe elevate per mezzi parcheggiati indebitamente davanti all’area di ponte Zaera e per spostamento delle barriere “new jersey”». Ferlisi non ci sta a passare tra i “capri espiatori”: «Quello che dovevamo fare, per le nostre competenze e tenendo conto dell’esiguità dell’organico, lo abbiamo fatto, senza reticenze nè omissioni nè connivenze».
Certo, che quello dei mercati sia stato, e sia ancora, una sorta di “mondo a parte”, un “far west” dove a dettare le regole non sono gli “sceriffi” ma i “banditi”, è difficile negarlo. Se si vuole compiere un’analisi seria, sul piano politico-amministrativo, bisogna evitare il rischio di cadere in una vuota e generica demagogia. Il Comune non è un’entità indistinta, vi sono uomini in carne e ossa, delimitazione di compiti e precise responsabilità nei singoli settori. Si vada fino in fondo ad accertare eventuali complicità, “protezioni” politiche o “disattenzioni”, senza sparare nel mucchio, ma con estremo rigore.
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L’inchiesta giudiziaria, coordinata dal sostituto procuratore della Repubblica di Patti, Alessandro Lia, ha avuto inizio alla fine del 2007, con l’impiego di intercettazioni ambientali e telefoniche e l’ausilio di servizi di osservazione e pedinamento. Le risultanze investigative hanno consentito di individuare una consistente attività di traffico e spaccio di cocaina, immessa sul mercato degli assuntori ramificato sull’intero territorio dei Nebrodi. Il centro nodale dell’intera attività criminosa è stato focalizzato nel paese di Tortorici, ormai riconosciuto quale importante crocevia della locale criminalità organizzata. Salvatore Pasquale Destro Pastizzaro ed il figlio Sebastiano sono stati raggiunti dal provvedimento di custodia cautelare in carcere, mentre Settimo Manera è stato sottoposto alla misura degli arresti domiciliari. Nella fase condotta dell’operazione, il personale dell’Arma ha anche effettuato alcune perquisizioni presso il centro di Tortorici, finalizzate al rinvenimento di sostanza stupefacente. I Destro Pellizzaro erano già finiti in carcere lo scorso 19 maggio per coltivazione di canapa indiana: una piantagione era stata scoperta dai carabinieri nella loro campagna in contrada Santa Nagra di Tortorici, dove erano stati sequestrati 50 chili di marijuana. Il 13 novembre 2007, inoltre, padre e figlio sono stati condannati in primo grado a 15 anni e 10 mesi nell’ambito dell’operazione “Mare Nostrum”.
fonte:melitoonline.it
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Metteva a disposizione delle cosche mafiose messinesi i propri beni per offrire rifugio a latitanti e locali in cui i boss effettuavano riunioni. Un impero costituito da centinaia di appezzamenti di terreno sparsi fra le province di Messina e Catania, ma anche aziende agricole e vinicole e poi edifici e imprese, è finito sotto sequestro su ordine dei giudici del tribunale di Catania. Si tratta di beni per un valore complessivo di oltre 300 milioni di euro, uno dei più grossi sequestri patrimoniali nell’ambito di inchieste sulla mafia. L’indagine è della Direzione investigativa antimafia, e riguarda l’imprenditore Mario Giuseppe Scinardo, 43 anni, originario di Capizzi (Messina), accusato di associazione mafiosa e di far parte della cosca dei Rampulla di Mistretta. Il sequestro fa riferimento anche a beni intestati alla moglie Nellina Letizia Deni e al fratello Salvatore Scinardo.
Tra i beni sequestrati c’é anche il fondo Malaricotta che un tempo appartenne al cavaliere del lavoro catanese Gaetano Graci. E dal nome di questo appezzamento di terra prende il nome l’operazione della Dia la cui inchiesta è stata coordinata dalla Dda di Messina e Catania. “Dall’acquisto di questo appezzamento di terreno - ha detto il procuratore di Catania d’Agata - si capisce come purtroppo, alla spoliazione del bene effettuata ad un mafioso subentri un altro mafioso”. Tra le società sequestrate anche una per la produzione alternativa di energia con impianti eolici, che stava per essere acquisita da una società francese per 40 milioni di euro. L’operazione, illustrata stamani dai procuratori della Repubblica di Messina e Catania Vincenzo D’Agata e Guido Lo Forte e da funzionari della Dia, è frutto di una sinergia tra le due autorità giudiziarie.
Lo Forte ha definito “lo stretto rapporto di collaborazione tra le due Procure un efficace modo di contrapporre una organizzazione adeguata alle realtà criminali della Sicilia Orientale”. Scinardo è stato rinviato a giudizio nell’ambito del procedimento penale scaturito dall’operazione denominata ‘Montagna’. Gli investigatori ritengono che Scinardo dal 1992 ad oggi ha dichiarato un reddito annuo di 20 milioni di euro a fronte di investimenti di parecchi miliardi. Nel luglio del 2007, in occasione di un sequestro di beni, l’imprenditore avrebbe inoltre chiuso conti bancari emettendo assegni per 680 mila euro. Alla Dia risultano anche movimenti di denaro tra l’Italia e il Lussemburgo.
Durante una perquisizione è stata trovata la copia di una richiesta fatta dalla Dia alla Regione in cui si chiedeva di quali contributi avesse beneficiato l’imprenditore. D’Agata ha definito il fatto “inquietante e preoccupante” aggiungendo che esso “può essere indicativo della capacità di infiltrazione nelle istituzioni, specie regionali, da parte della mafia”.
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