Leonardo Messina, detto "Narduzzo" nacque a San Cataldo, in provincia
di Caltanissetta il 22 settembre 1955. Cresciuto in una famiglia di
modeste condizioni e di tradizione mafiosa, Messina lasciò la scuola
dopo la licenza elementare e, ancora giovane, diede il via alla sua
carriera di criminale con alcuni furti.
La prima condanna pesante la subì nel 1978, quando finì in carcere per
rapina. Dopo quattro anni di detenzione e un periodo di soggiorno
obbligato, Messina fu pronto per diventare uomo d'onore. Il 21 aprile
1982, infatti, fu regolarmente affiliato alla cosca locale. Dopo alcuni
anni trascorsi come soldato prima e capo decina poi, divenne sottocapo
della famiglia di San Cataldo. In quegli stessi anni Messina divenne
amico e uomo di fiducia di Giuseppe
Madonia, detto "Piddu chiacchiera", esponente della famiglia più
importante della provincia di
Caltanissetta, quella di Vallelunga, molto legata ai
corleonesi.
Per molto tempo, nonostante le incriminazioni per furto, rapina e
traffico di stupefacenti e alcuni provvedimenti di soggiorno obbligato
a suo carico, fu considerato un esponente di secondo piano della mafia
del
nisseno. "Narduzzo", infatti, coprì le sue attività criminose,
continuando a lavorare come caposquadra nella miniera di sali potassici
di
Pasquasia. Nel giugno del 1984, però, finì ancora in carcere con
l'accusa di essere il mandante dell'omicidio di uno spacciatore e vi
rimase fino al 1989; nel 1991 fu poi definitivamente assolto. Tornato
in libertà, Messina si legò sempre più a
"Piddu" Madonia, nel frattempo diventato il rappresentante provinciale
di Cosa Nostra per
Caltanissetta; per suo conto organizzò e gestì una rete per il traffico
di stupefacenti con ramificazioni in altre regioni italiane.
Nell'aprile del 1992, alla vigilia di Pasqua, mentre stava per tendere
un agguato mafioso ad un altro uomo d'onore, suo rivale nella corsa
alla guida della famiglia di San Cataldo, fu catturato e finì in
carcere. Temendo ritorsioni nei confronti dei suoi familiari e, come
sostiene, forse spinto dalle parole di Rosaria, vedova dell'agente Vito
Schifani, morto a Capaci, si decise a collaborare con la
giustizia.
Il 30 giugno dello stesso anno iniziò a deporre davanti al giudice
Paolo Borsellino, facendo importanti rivelazioni sulle famiglie mafiose
delle province di
Caltanissetta, Enna, Palermo, Trapani ed Agrigento. Nacque così uno
spettacolare blitz delle forze dell'ordine, la cosiddetta "Operazione
Leopardo", che il 17 novembre del 1992 portò all'esecuzione di oltre
duecento ordini di cattura in tutta Italia. Messina fu il primo
collaboratore a mettere a verbale il nome di Giulio
Andreotti, indicato come referente politico principale per le necessità
di Cosa Nostra e fu anche l'unico a sostenere che il senatore a vita
fosse stato
"punciuto", cioè formalmente affiliato a Cosa Nostra. "Narduzzo" parlò
poi delle responsabilità di Salvo Lima e del tentativo di aggiustamento
in Cassazione del primo maxiprocesso, il cui esito fallimentare scatenò
la stagione delle stragi nel 1992. A Messina si devono anche le prime
informazioni sulla
"Stidda", l'associazione mafiosa rivale di Cosa Nostra, soprattutto
nell'agrigentino e nel nisseno e le importanti ed inquietanti rivelazioni sulla massoneria deviata e i suoi rapporti con Cosa Nostra.
Francesco Marino Mannoia è nato a Palermo il 5 marzo 1951, soprannominato Mozzarella o anche il
chimico. Suo padre era un mafioso della famiglia di Santa Maria di
Gesù.
Nonostante fosse tra i picciotti più fidati di Stefano Bontade, alla sua morte passò con i clan vincenti, per i quali raffinò centinaia di partite di
eroina. Dopo l'uccisione del fratello Agostino, nell'ottobre 1989, iniziò la sua collaborazione con le autorità
giudiziarie. Fu il primo collaboratore di giustizia a provenire dalle fila dei clan
vincenti. Nel mese di novembre dello stesso anno la mafia, per intimidirlo, uccise la madre, la sorella e la
zia.
Al maxiprocesso venne condannato a diciassette anni di reclusione.
Attualmente vive con la sua compagna e i figli sotto la protezione dell
'FBI, in seguito alle deposizioni rese nei tribunali
americani. E' tra i principali testi d'accusa contro Giulio Andreotti.
Gaspare Mutolo è nato a Palermo il
5 febbraio 1940, Gaspare Mutolo, detto "Asparino" crebbe tra i vicoli
di Pallavicino e le borgate di Mondello e
Partanna. Abbandonata la scuola, iniziò a lavorare come meccanico in
un'officina e quasi contemporaneamente si dedicò ai primi furti di
macchine. Fin da giovane venne a contatto con la realtà mafiosa, dal
momento che alcuni suoi familiari erano membri effettivi
dell'organizzazione. Nel 1965 finì in carcere per la prima volta per
furto.
All'Ucciardone conobbe Salvatore Riina, allora boss emergente della mafia della
provincia:
dividendo la cella con il futuro "capo dei capi", Mutolo venne a
conoscenza dei segreti di Cosa Nostra e, su suo invito, si mise sotto
l'ala protettiva di Rosario "Saro"
Riccobono, il capo della famiglia di Partanna Mondello. Dopo qualche
anno di apprendistato, Mutolo fu "combinato" da Riina nel 1973 a
Napoli, durante una riunione nell'abitazione del camorrista Lorenzo
Nuvoletta. Ufficialmente affiliato alla famiglia di Partanna
Mondello, divenne presto il braccio destro di Riccobono e
uomo di fiducia di Riina per incarichi delicati. Mutolo si fece quindi largo nell'organizzazione mafiosa, prima come
killer e poi come trafficante di droga, grazie anche al rapporto di
amicizia stretto in carcere con il trafficante Koh Bak
Kin, originario di Singapore e attivo lungo le rotte del sud est
asiatico. Arrestato ancora nel 1976 e poi nel 1982, finì per alternare
periodi più o meno lunghi di detenzione nelle carceri italiane ad altri
in cui fu sottoposto a provvedimenti di soggiorno obbligato in Toscana.
Durante una delle sue detenzioni, fu compagno di cella di
Luciano Liggio;
successivamente rivelò agli inquirenti di essere lui l'autore delle
tele attribuite all'estro pittorico del vecchio padrino di
Corleone. La simpatia istintiva nutrita da Riina nei suoi confronti
permise ad
"Asparino" di salvare la vita, quando, nel novembre del 1982, Riccobono
e altri uomini della cosca di Partanna Mondello furono eliminati perché
ritenuti ormai del tutto inutili per i fini egemonici perseguiti dai
corleonesi. Per alcuni anni Mutolo ebbe anche l'onore - onere di essere
l'autista di fiducia e il guardaspalle personale del nuovo capo di Cosa
Nostra. Al termine del primo maxiprocesso istruito dal pool di Falcone e
Borsellino, fu condannato a sedici anni di reclusione.Nel dicembre del 1991, Mutolo, ormai rinchiuso nel carcere di Spoleto, maturò la decisione di
collaborare con la giustizia e,
dopo la strage di Capaci, si rafforzò nella convinzione di dover
rompere definitivamente con Cosa Nostra. Fu per questo che, a partire
dall'estate del 1992, rese le sue dichiarazioni prima al procuratore
della repubblica di Firenze Pierluigi Vigna e poi al giudice Paolo
Borsellino, a pochi giorni dalla strage di via D'Amelio. L'insieme
delle sue deposizioni fu subito giudicato straordinariamente
importante, perché frutto delle
rivelazioni ricevute direttamente da alcuni dei più influenti boss della Commissione di Cosa
Nostra.
Mutolo parlò del ruolo di mediatore tra politica e mafia svolto da
Salvo Lima e confermò anche le responsabilità di Giulio
Andreotti. L'uccisione di Lima, secondo Mutolo, fu un segnale che la
mafia volle inviare al senatore a vita, a seguito della conferma
dell'impianto accusatorio del primo maxiprocesso. Destarono clamore
anche le sue rivelazioni sulle presunte collusioni con le cosche di
alcuni magistrati palermitani, tra cui Carmelo Conti, Pasquale
Barreca, Domenico Mollica, Francesco D'Antoni e Domenico Signorino,
pubblico ministero al primo maxiprocesso e morto suicida il 3 dicembre
1992, proprio a seguito della pubblicazione sulla stampa di alcune
indiscrezioni relative ad un suo coinvolgimento nelle confessioni di
Mutolo. L'ex mafioso di Partanna Mondello fu inoltre
uno dei principali testimoni di accusa a carico del questore
Bruno Contrada, distaccato al SISDE, dopo una carriera iniziata nella squadra mobile di Palermo e continuata poi nelle file della Criminalpol.
Giuseppe Calò, soprannominato "la salamandra" per la capacità di uscire indenne dalle
situazioni più scottanti, proprio come l'anfibio, il boss mafioso
Giuseppe Calò, nacque a Palermo il 30 settembre 1921, figlio di un
macellaio e barista. Inizialmente, il giovane si cimentò nelle medesime
professioni del genitore, fino a quando, non ancora diciottenne, si
distinse per aver inseguito e ferito a colpi di pistola l'assassino
dello stesso padre. Dopo un brillante apprendistato come "soldato", nel
1969 coronò la carriera all'interno dell'organizzazione, divenendo il
capo del potente mandamento di Porta Nuova. All'inizio degli anni Settanta, si trasferì a Roma
dove, sotto la finta identità di Mario
Agliarolo, antiquario di professione, fece numerosi investimenti nel
settore edilizio e riciclò, per conto delle cosche, una così gran
quantità di denaro da guadagnarsi, in poco tempo, l'appellativo di
"cassiere di Cosa Nostra". Passato nello schieramento vincente dei Corleonesi,
nel corso degli stessi anni, strinse legami strategici con il mondo dei
servizi segreti e della politica. In numerose situazioni, non esitò
neppure a servirsi della cosiddetta "Banda della
Magliana", una banda di delinquenti comuni con base operativa nella
capitale che, una volta entrati in contatto con la mafia e i servizi,
seppero diversificare le proprie attività criminali, finendo implicati
in alcuni dei più importanti misteri italiani. Diversi collaboratori di
giustizia parlarono di un coinvolgimento della "salamandra" nella
vicenda Moro: durante una riunione della Commissione, infatti, egli
avrebbe bloccato il tentativo di salvare lo statista democristiano che
Stefano Bontate
voleva compiere, dichiarando che a volerne la morte erano esponenti
influenti della stessa Democrazia Cristiana. Calò fu anche tra gli
organizzatori dell'attentato al rapido 904, il treno che esplose la
notte del 23 dicembre 1984, provocando la morte di quindici passeggeri
e il ferimento di altri duecento. Il convoglio saltò in aria nei pressi
di San Benedetto Val di Sambro (BO), nella stessa galleria in cui dieci
anni prima vi era stato l'attentato al treno
"Italicus" (12 morti e 105 feriti).
Il cassiere di Cosa Nostra fu arrestato il 30 marzo 1985, in una villa a Poggio San Lorenzo, in provincia di Rieti:
nel suo covo fu ritrovato un vero arsenale da guerra.
Il 25 febbraio 1989 fu condannato all'ergastolo unitamente ad altri
quattro imputati: nel corso delle indagini emersero i collegamenti tra
lo stesso Calò ed ambienti della destra eversiva. La sentenza fu
confermata in appello (15 marzo 1990). A questa condanna si aggiunsero
poi altri due ergastoli, uno per l'omicidio del commissario Boris
Giuliano e l'altro per l'eccidio di via Carini, in cui perse la vita il
prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa. Nel settembre del 1993
chiese di essere interrogato dai magistrati che indagavano sugli
attentati alle basiliche di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio
al Velabro a Roma, ma non fornì contributi rilevanti. Agli inizi del
1997, finirono in manette il costruttore palermitano Luigi Faldetta e
Vincenzo e Giuseppe Bellino, uomini della famiglia di Porta Nuova: i
tre furono accusati di essere i prestanome del boss palermitano per
l'attività di riciclaggio. Il 26 settembre Calò fu condannato
nuovamente all'ergastolo per la strage di Capaci. Alla fine
dell'ottobre dello stesso anno, il "Corriere della Sera" pubblicò la
clamorosa notizia della sua collaborazione con gli inquirenti: tuttavia
la circostanza fu subito smentita.
Luciano Liggio, per gli amici Lucianeddu, detto anche la primula rossa, nacque a Corleone il 6 gennaio 1925. Ancora giovane
campiere,
prese il posto del vecchio capo mafia Michele Navarra e
guidò i corleonesi all'assalto della città di Palermo, in aperta sfida al predominio delle altre famiglie di Cosa
Nostra.
Oltre alla conquista dei mercati illegali, si arricchì con lo
sfruttamento delle opere di edilizia urbana, pubblica e privata,
facendo leva sul rapporto preferenziale con il politico Vito
Ciancimino, assessore e sindaco di Palermo in quegli anni del sacco
della città. Non esitò mai ad eliminare i tanti ostacoli che gli si
pararono dinanzi, dal sindacalista Placido
Rizzotto, scomparso il 10 marzo del 1948, al capo mafia di Corleone
Michele
Navarra, ucciso il 2 agosto 1958. Fu arrestato la prima volta il 14
maggio del 1964.
Assolto per insufficienza di prove prima a Catanzaro nel 1968 e poi a
Bari il 10 giugno del 1969, uccise il procuratore capo di Palermo
Pietro Scaglione il 5 maggio del 1971. Durante un lungo
periodo di latitanza al Nord, portò a termine con i suoi uomini
numerosi sequestri di persona, tra cui quelli di Luigi Rossi di
Montelera, Paul Getty III, Giovanni Bulgari, Egidio Perfetti. Fu infine
arrestato a Milano il 16 maggio 1974 e finì in carcere: da quel momento
non tornò mai più in libertà. Colpito da infarto, morì il 15 novembre
1993 nel carcere di Badu e
Carros, in Sardegna.